Ha scritto Paolo Crepet sul docufilm “SanPa”: “Io appartengo a una generazione di operatori della salute mentale che ha creduto che la libertà rappresenta l’ingrediente fondamentale per un processo conoscitivo di se stessi, quindi di miglioramento delle proprie condizioni. Non può esistere processo terapeutico nella contenzione, nella negazione dei diritti della persona: è una semplice e fondamentale contraddizione di termini”.

“La cosiddetta lotta per il bene e la salute individuale, se passa attraverso la perdita o la sospensione dei diritti, porterà a una vittoria effimera che finirà per non cambiare nulla di ciò che si vuole combattere”.

“Eppure allora magna pars delle convinzioni pubbliche, supportate dalla stampa più blasonata e da firme illustri, aveva chiuso gli occhi su catene, prigioni, soprusi perpetuati sui più fragili figli della borghesia e delle periferie che aveva creato.”. (huffingtonpost.it)

Quella comunità, così com’è, va chiusa o completamente trasformata, a prescindere dalle violenze esercitate nel passato. Non ha alcun senso che si comporti come un’impresa privata capitalistica (sfruttando il lavoro altrui), né che possa diventare una residenza fissa per gli ex-tossici (diventando così una nuova forma di “droga”). Le droghe vanno legalizzate. I detenuti per spaccio vanno liberati. Alla criminalità organizzata va sottratta questa incredibile fonte di guadagno. E le comunità terapeutiche devono affrontare tutte le forme di dipendenza con personale specializzato e per un tempo limitato. Bisogna abituarsi a non fare differenza tra le dipendenze da droghe, sesso, alcol, fumo, gioco, cibo… Andrebbero curati persino coloro che mostrano dipendenze pericolose da religione, potere, soldi, sport… Tutto quanto crea “dipendenza” può diventare rischioso, per sé e per gli altri. E bisogna essere “rieducati” a vivere in maniera normale, nel rispetto dei valori umani e naturali.

Alcuni sostengono che all’inizio degli anni ’80 i drogati, per disintossicarsi, non avessero molte alternative. In realtà il Coordinamento Nazionale delle Comunità d’Accoglienza e la Federazione Italiana delle Comunità Terapeutiche erano nate nel biennio 1980-81. Fu don Mario Picchi, fondatore del Centro Italiano di Solidarietà di Roma, già nel lontano 1969, tra i primi a interpretare il problema della droga come sintomo di un malessere di tipo esistenziale. E nel 1975 esisteva già la legge n° 685, che riconosceva la tossicodipendenza come patologia specifica, per cui necessitava di istituzioni di servizi sanitari appositi presso le USL. San Patrignano è nata nel 1979 e la sua filosofia di vita è sempre stata la stessa: “fuori la società fa schifo e tu qui, in cambio della sicurezza materiale in termini di vitto e alloggio, devi solo rinunciare a qualunque diritto”. Tant’è che preferivano i tossici in carcere, così se scappavano, potevano andarli a riprendere.

Ovviamente qui non ci si riferisce ai figli dei vip, che non potevano essere toccati, anche perché i genitori pagavano fior di quattrini. E neppure a quei drogati che, una volta guariti, han potuto andarsene liberamente (cosa accaduta solo dopo i due processi che ha subito Muccioli e solo dopo la sua improvvisa morte, si presume di Aids), bensì a quei tanti drogati misconosciuti dalle famiglie, figli di nessuno, frequentanti le carceri, costretti a rubare o a prostituirsi, cui in comunità non era permesso far nulla di autonomo. Se si andava a far visita alla comunità, non era neppure permesso parlare con loro, ma solo con lo staff di Muccioli.

Il problema di fondo è che non si può rinunciare a qualunque diritto pur di guarire. Se la struttura che ospita un drogato sa di questa rinuncia, chi la dirige può sentirsi autorizzato a comportarsi come gli pare. E il fatto che i genitori, l’intera società autorizzi questa licenza è inqualificabile.

Muccioli era un imbonitore, non sapeva nulla di psicopedagogia, non si volle mai circondare di un personale specializzato ad affrontare la problematica della dipendenza. Faceva fare carriera a elementi rozzi e violenti perché lui stesso lo era. Si arricchì in una maniera vergognosa sfruttando il lavoro gratuito di persone che non avrebbero potuto opporsi. Il figlio che lo sostituì era come lui. I metodi della sua comunità, la sua stessa impostazione di residenza fissa e commerciale, sono sempre stati rifiutati da tutte le altre comunità terapeutiche, che infatti non si sono mai definite “comunità di vita”, poiché questa definizione crea una nuova dipendenza

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