La stampa italiana, sia cartacea che digitale, è piuttosto in crisi. La pandemia del Covid-19 non ha fatto che peggiorare la situazione.

Nell’aprile del 2020 la holding della famiglia Agnelli ha acquisito il 48,8% di Gedi dalla CIR dei De Benedetti, procedendo fin da subito a una ristrutturazione: almeno 50 prepensionamenti a “La Repubblica” entro il 2021. Inoltre quattro storiche testate locali sono state cedute al gruppo SAE (Sapere Aude Editori), guidato dall’imprenditore Alberto Leonardis: “Tirreno”, “La Nuova Ferrara”, “Gazzetta di Reggio” e “Gazzetta di Modena”. Il gruppo sembra intenzionato ad acquistare anche “La Nuova Sardegna”.

Al gruppo Gedi invece appartengono, oltre a “Repubblica”, “L’Espresso”, “HuffPost Italia”, “La Stampa”, “Il Secolo XIX”, “Radio DeeJay” e tanto altro.

È quindi evidente la concentrazione delle maggiori testate nelle mani di pochi grandi gruppi. Gran parte delle azioni del Gruppo Rizzoli (RCS MediaGroup) sono controllate da Urbano Cairo; poi vi sono anche Mediobanca, Diego Della Valle e l’assicurazione Unipol.

I Caltagirone, potente famiglia di costruttori edili, possiedono invece in larga parte “Il Messaggero”, “Il Mattino”, “Leggo”, il “Gazzettino” e soprattutto “Il Sole 24 Ore”, testata ufficiale di Confindustria.

All’estero avviene la stessa cosa. Le piattaforme di maggior successo dei social network sono pressoché detenute da un’unica proprietà. E il “Washington Post” è stato acquistato da Jeff Bezos, fondatore di Amazon, nel 2013.

In Italia due giornalisti su tre sono liberi professionisti, e il loro reddito è in media 5 volte inferiore rispetto ai colleghi alle dipendenze di una testata. Inoltre una donna giornalista, in media, guadagna il 20% in meno rispetto a un collega uomo.

I titoli della stampa digitale spesso sono sensazionalistici: devono restare in prima pagina per poco tempo, prima di essere modificati per attirare nuovi click. Questo perché l’informazione, veloce, superficiale e bulimica, non può viaggiare in maniera separata dal profitto.

In questo contesto gli investimenti pubblicitari diventano spesso un elemento di sopravvivenza per le testate, che devono avere un certo appeal. L’informazione scientifica è usata in maniera assolutamente approssimativa dalla stampa italiana, per dire tutto e il contrario di tutto. Solo quando vi è in atto il conflitto tra Israele e Palestina non si ha dubbi da che parte stare.

Il ricorso alla voce degli esperti, di cui abbiamo avuto abbondanti esempi durante la pandemia, è un riflesso dell’inconsistenza della comunicazione da parte della classe dominante, che scarica le proprie responsabilità politiche sulle spalle dei tecnici.

La stessa comunità accademica e scientifica si guarda bene dal criticare il modello di sviluppo capitalistico connesso alla pandemia, anzi si esaltano gli sforzi del capitale privato a produrre vaccini.

Il tema della cancellazione dei brevetti sui nuovi vaccini viene appena sfiorato dalla stampa italiana, più per dovere di cronaca che per vere e proprie prese di posizione. Con lo stesso taglio viene affrontata la difficoltà di approvvigionamento vaccinale da parte dei Paesi più poveri.

I social network in genere non producono informazione, ma sono piattaforme gestite da aziende private, i cui proventi vengono dagli investimenti pubblicitari.

La piattaforma viene usata per propagandare posizioni spesso direttamente conflittuali nei confronti della piattaforma stessa, ma il solo fatto di avvicinare utenti in questo modo rappresenta comunque una fonte di profitto per la piattaforma. Il che non vuol dire che non possano esserci vere e proprie chiusure dei vari profili se il conflitto sociale dovesse fare un salto di qualità. Nelle società occidentali sono tollerati i siti internet di collettivi e organizzazioni di sinistra solo grazie al basso livello dello scontro di classe. Chi guadagna dall’informazione non ha interesse a che crescano all’ombra del loro dominio testate indipendenti.

Ecco perché sarebbe bene che la stampa venisse espropriata dai grandi gruppi proprietari e posta sotto il controllo di comitati di giornalisti e dei lavoratori delle tipografie, affinché il giornalismo torni ad essere un lavoro svolto da un soggetto professionale. È dai tempi di Carlo Caracciolo che non esiste più la figura dell’editore puro, cioè che fa solo l’editore.

Fonte: marxpedia.org

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