Il recente rapporto del Ministero del Lavoro, riguardante la precarietà del lavoro e la povertà degli italiani, dice che non è solo una questione di salari stagnanti: pesano anche l’instabilità crescente delle carriere, il boom del part-time involontario e l’aumento dei lavoretti. La pandemia ci ha messo a terra, dopo la terribile crisi finanziaria mondiale del 2008. Altro che recupero del PIL.

Tutti gli strumenti – dagli 80 euro al reddito di cittadinanza – per aggredire il fenomeno delle basse retribuzioni, hanno miseramente fallito.

L’11,8% di chi lavora è povero (e le donne molto più degli uomini), e addirittura 1/4 dei lavoratori ha retribuzioni così basse (meno di 11.500 euro all’anno) da rischiare di diventarlo, finendo in una spirale che una volta su due è una condanna definitiva. Chi lavora per meno della metà dell’anno rischia di finire in povertà nel 75% dei casi, contro il 20% di chi ha un impiego per l’intera annualità. Per di più solo il 50% dei lavoratori poveri è raggiunto da una forma di sostegno al reddito.

Il gruppo di lavoro di sociologi, giuslavoristi ed economisti, coinvolti dal suddetto Ministero, ha poi individuato cinque proposte, da prendersi nel loro insieme, per uscire da questa situazione. Ma siccome non ce n’è una che riguardi la lotta all’evasione fiscale e alla criminalità organizzata, le assurde spese in campo militare, il vergognoso sostegno alle banche per impedire che falliscano, la requisizione delle aziende che chiudono per trasferirsi all’estero, il pagamento delle tasse in rapporto al reddito e la riduzione degli stipendi astronomici di manager, politici e funzionari statali, è inutile prenderle in esame. È tutta aria fritta.

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